II

IL «FURIOSO» E LA CRITICA SETTECENTESCA

A mano a mano che si procede nel Settecento, un nuovo amore per l’Orlando riprende o a spese della Gerusalemme o piú equilibratamente in una diversa qualifica dei due poemi.

È il Gravina che piú decisamente afferma la grandezza ariostesca contro quella del Tasso. La afferma in un discorso mescolato di fresche intuizioni e di sovrapposte teorie (come quella della moralità e dei «precetti»), mettendo in rilievo soprattutto (e previene cosí i giudizi settecenteschi) la spontaneità e la grazia nativa:

E pure, a parer mio, con tutti questi vizi (forme plebee, interruzione delle narrazioni ecc.), è molto superiore a coloro a’ quali in un co’ vizi mancano anche dell’Ariosto le virtú; poiché non rapiscono il lettore con quella grazia nativa, con cui l’Ariosto poté condire anche gli errori, i quali sanno, prima di offendere, ottenere il perdono; in modo che piú piacciono le sue negligenze che gli artifizi altrui; avendo egli libertà d’ingegno tale, e tal piacevolezza nel dire, che il riprenderlo sembra autorità pedantesca ed incivile. Tutto effetto di una forza latente, e spirito ascoso di feconda vena, che irriga di soavità i sensi del lettore, mossi e rapiti da cagione a se stesso ignota[1].

Ma in generale, se ariostisti e tassisti seguitarono a contendersi il primato (sino a fornire il soggetto per una commedia di Giulio Cesare Becelli: L’ariostista e il tassista, del 1748), si giunse piuttosto a una forma di distinzione indicata già dal Menzini alla fine del Seicento:

Or basti il dir che al gran cantor di Manto

Torquato asside, e l’altro al nobil saggio

del cui natal Smirne pretende il vanto[2].

Ripeterà ciò il Bettinelli nel VII poemetto e la equanime attribuzione Tasso-Virgilio, Ariosto-Omero si ritroverà come luogo comune del secolo accanto al crescere e all’approfondirsi di un nuovo amore per l’Orlando[3].

L’amore del Settecento per il Furioso ha varie fasi e giustificazioni: incontro di estro e di lucidità intellettuale, di sorriso spregiudicato, di agilità musicale e di evidenza figurativa nel periodo rococò e illuministico; libertà fantastica, impeto creativo al di là di ogni soggezione regolistica nel preromanticismo, quando il poema ariostesco divenne addirittura la bandiera meno contrastata (a causa del precedente amore del rococò illuministico e della stima dello stesso neoclassicismo che sulle orme del Gravina riconosceva in quello l’eredità greco-latina e il capolavoro del genuino Rinascimento) della lotta a favore della nuova poetica del genio, della fantasia, del sentimento spontaneo[4]. E se nella prima metà del secolo residui barocchi e un classicismo piú incerto, e per ciò stesso a volte equivocamente zelatore di ordine e sistema[5], poterono contrastare nell’animo degli stessi ammiratori con la loro simpatia istintiva per quell’avventurosità briosa, per quella linea fluida e varia, gioiosa e limpida e con la loro viva impressione di piacere, è soprattutto dalla metà del secolo in poi che il piú aperto edonismo del rococò maturo e d’altra parte lo stesso spirito illuministico, innamorato della lucidità, della sensibile evidenza, della saggezza sorridente e spregiudicata, offrirono al poema come una nuova contemporaneità, una nuova vita che, mentre rischiava di ridurlo in termini settecenteschi, stimolava però intuizioni che sono vicine e indispensabili alle prime posizioni feconde della critica foscoliana e in genere del primo Ottocento.

Cosí Juan Andrés nella sua opera Dell’origine, de’ progressi, e dello stato attuale d’ogni letteratura (Parma, 1782) mentre chiama l’Orlando «un poema ch’è tutto bizzarria e capriccio»[6], sa avvertire, secondo le coordinate di quel gusto, alcuni toni ariosteschi in maniera veramente nuova: tale che solo il gusto settecentesco poteva rilevarli con maggiore chiarezza del Cinquecento, troppo immerso nel suo amore istintivo per il poema e d’altra parte impacciato dal regolismo.

Rilevando con parole molto settecentesche l’incanto di uno stile «spontaneo, naturale, fluido», l’Andrés sapeva bene spingere avanti la sensibilità del suo tempo nella comprensione delle possibilità di tono brillante e insieme concreto dell’Orlando, della sua facilità bonaria, non libresca e non solenne. Certo vi era il pericolo di una riduzione settecentesca e melodrammatica, ma anche quale importante accertamento di una evidenza senza sforzo, di una naturalezza sobria e sorridente non tanto per intenzioni libertine o per dissolvente ironia quanto per risultato di umanità concreta e di stile tutto raggiunto.

E sono proprio le parole suggestive di familiarità, «aria confidenziale», che il gesuita illuminista sa estrarre da una diffusa sensazione del suo tempo:

Egli non espone, non narra, non descrive, ma mette davanti gli occhi, e fa vedere i prati, i ruscelli, le grotte, i palazzi, le afflitte donne, i cavalieri che combattono e i fatti e le cose tutte che si presentano nel poema. Ma il piú potente segreto dell’Ariosto per istringersi con soavi lacci gli animi dei leggitori, consiste, a mio giudizio, nell’aria di confidenza e di familiarità del suo poema [...][7].

Quella speciale altezza soprareale e pur nutrita di realtà è colta con adeguazioni intelligenti e, pur in mezzo ad equivoci, l’erudito settecentesco individua quella essenziale radice di tono semplice ed altissimo, anche se la sublime «facilità» ariostesca è sentita soprattutto in senso quasi di fisico benessere, di piacere:

Cosí egli può prendersi l’amichevole libertà di condurre il lettore pe’ giardini, per le foreste, pe’ mari e pe’ monti; cosí può mostrargli palazzi e castella, grotte e dirupi; cosí insomma può volgere e rivolgere il suo animo come a lui meglio piace, senza mai recargli stento o fatica, anzi porgendogli dolce solazzo e sommo diletto[8].

Mentre poi, in base a questa «facilità» ed evidenza, trovava molti limiti alla potenza drammatica dell’Orlando specie nelle parlate dei personaggi:

E a dire il vero quella maestria e superiorità dell’Ariosto nel dipingere vivamente in qualunque situazione gli eroi del poema, io non gliela scopro egualmente nel farli parlare nelle toccanti e patetiche scene e sembrami l’Ariosto nella parte drammatica inferiore assai a se stesso nella pittorica[9].

E cita molto giustamente la parlata di Olimpia nel suo progressivo diluirsi e nella sua netta inferiorità rispetto alla grande scena che la precede.

Del resto già gli eruditi settecenteschi, gli storici letterari piú ricchi di notizie che di idee, ma non perciò sepolti in un gusto reazionario (Quadrio, Mazzuchelli, Tiraboschi), mentre sanavano la vecchia questione epica-non epica, avevano sentito fortemente due temi: quello della naturalezza familiare, della evidenza pittorica che facilmente scade in una specie di descrittivismo senza profondità, di felicità senza problema, e quello dell’energia passionale che provoca il loro entusiasmo.

«Io non temerò di chiamar felice e la negligenza e il disordine de’ racconti, e qualunque altro letterario difetto si voglia rimproverare all’Orlando, perché forse se l’Ariosto l’avesse piú scrupolosamente purgato, esso non avrebbe quei tanti e sí rari pregi, che vi ammiriamo», dice il Tiraboschi nella III parte del VII volume della Storia della letteratura italiana[10].

Negligenza un po’ da capriccio rococò, e giustificazione settecentesca di naturalezza e insofferenza di elaborazione che risponde in parte al gusto di improvvisazione del secolo e in parte preannuncia il senso preromantico dell’entusiasmo nei limiti ambigui del Settecento:

Ma questa sembra essere la sorte dei piú rari e dei piú fervidi ingegni, cioè che non sappiano soggettarsi alla noiosa fatica, che seco porta il pulire i loro parti. E forse di questo difetto medesimo dobbiamo sapere loro buon grado; perciocché, se maggiore studio avessero riposto nell’arte, meno seguito avrebbero la natura che è finalmente il piú bello fra tutti i pregi che proprio son di un poeta[11].

Entusiasmo ed evidenza naturale («Ma quei dello Ariosto mi rapiscon fuor di me stesso, e mi accendono nel seno quell’entusiasmo di cui son pieni; sicché a me non sembra di leggere, ma di vedere le cose narrate»[12]), brio e difetti per geniale naturalezza, per grazia nativa che vengono sostanzialmente a vivere nel giudizio complesso di Voltaire, sensibilissimo alla colorita e piacevole suggestione di una poesia brillante e nativa.

Il Carducci in un articolo del 1881, ripubblicato nel volume XIV delle Opere (Ariosto e Voltaire), tracciò con finezza la vicenda dei giudizi dati dal Voltaire[13] nella nota sulla epopea in appendice alla Henriade: dubbi e correzioni che testimoniano l’insoddisfazione dell’esclusione dell’Orlando dai poemi epici e che arrivarono a questa forma definitiva:

Il y aura même quelques lecteurs qui s’étonneront que l’on ne place point ici l’Arioste parmi les poëtes épiques. Il est vrai que l’Arioste a plus de fertilité, plus de variété, plus d’imagination que tous les autres ensemble; et si on lit Homère pour une espèce de devoir, on lit et on relit l’Arioste pour son plaisir. Mais il ne faut pas confondre les espèces [...]. Je ne parlerais point des comédies de l’Avare et du Joueur en traitant de la tragédie. L’Orlando Furioso est d’un autre genre que l’Iliade et l’Enéide. On peut même dire que ce genre, quoique plus agréable au commun des lecteurs, est cependant très-inférieur au véritable poëme épique. Il en est des écrits comme des hommes. Les caractères sérieux sont les plus estimés, et celui qui domine son imagination est supérieur à celui qui s’y abandonne. Il est plus aisé de peindre des ogres et des géans que des héros, et d’outrer la nature que de la suivre[14].

Già qui c’era tale riconoscimento di poesia, sia pure nel senso del piacevole, da far comprendere quanto fosse l’amore voltairano per l’Orlando, fermato solo su di una esclusione accademica, sulla sua reazione classicistica di origine boileauiana[15].

Ed infatti nel Dictionnaire philosophique del 1771[16] ricorre una scusa solenne:

Je n’avais pas osé autrefois le compter parmi les poëtes épiques: je ne l’avais regardé que comme le premier des grotesques: mais en le relisant je l’ai trouvé aussi sublime que plaisant; et je lui fais très humblement réparation[17].

E un vero e proprio saggio prende il posto delle pagine prima assegnate al Trissino e di fronte ad un brevissimo accenno al Tasso per il quale si rinvia però alla lunga trattazione nell’Essai sur la poésie épique.

«Sublime et plaisant» (entusiasmo per capacità passionale e piacere per agevolezza briosa), ma soprattutto «plaisant». Piacere e «charme» che nascono dalla naturalezza e dalla sorridente facilità con una punta di «esprit voltairien»:

Ce qui m’a surtout charmé dans ce prodigieux ouvrage, c’est que l’auteur toujours audessus de sa matière, la traite en badinant. Il dit les choses les plus sublimes sans effort; et il les finit souvent par un trait de plaisanterie qui n’est ni déplacé ni recherché[18].

Cosí, in un abbandono piú sincero al suo gusto settecentesco, le avventure ariostesche libere, naturali, mutevoli, l’agevolezza di una fantasia senza ostacoli, diventano per Voltaire «cose divine», prove di un superiore possesso, di un dominio assoluto dei propri fantasmi poetici («il a été donné à l’Arioste d’aller et de revenir de ces descriptions terribles aux peintures les plus voluptueuses, et de ces peintures à la morale la plus sage»[19]).

Un posto a sé occupa nella critica settecentesca Antonio Conti, il cui pensiero sull’Ariosto è legato ad una generale concezione della poesia che insieme a quello passa nel primo Ottocento nel Corniani e nel Foscolo (nel quale acquista una forza tanto piú sicura ed efficace in una fase della critica piú matura ed omogenea ed in un rilievo personale tanto piú forte) e che nel suo Discorso sopra la italiana poesia – riprendendo da un punto di vista nuovo spunti di ammirazione cinquecentesca e approfondendo sotto l’impressione dell’amabile e del «confidenziale» il senso settecentesco di un agevole trapasso da proporzioni verisimili a bizzarre ma non sconcertanti fantasticherie – applicò con decisione al Furioso la sua formula dell’incontro del «verisimile» col «meraviglioso» applicata in diversa misura anche nel caso del poemetto di Callimaco-Catullo (e il Foscolo di quel binomio prenderà soprattutto il «mirabile» per unirlo al pure contiano «passionato» nella sua poetica nel Commento alla Chioma di Berenice[20]):

Impareggiabile è il suo poema per la facilità, eleganza, e soavità del verso, sia per la varietà e verità de’ costumi introdottici, sia per la novità dell’invenzioni, in cui con arte finissima accoppia il verisimile col maraviglioso, in modo che tesse un incanto alla fantasia che non dà tempo di riflettere alla menzogna poetica [...][21].

L’Ariosto tra tutti i poeti moderni ha saputo meglio particolareggiare d’ogni altro, ed è certo che tutta l’arte d’accordare il verisimile col mirabile consiste nel particolareggiamento [...]. Queste minute circostanze nel rappresentar la cosa, fissano in esse la fantasia, che dall’idee naturali e dalle prodigiose ne tira una terza che partecipa dell’una e dell’altra, ed allettando l’anima per il nuovo, e per il singolare, la determina piú a goder del piacere della maraviglia che ad opporsi alla falsità[22].

Intuizione che solo nell’Ottocento prenderà tutto il suo valore, legata ancora com’è nel pensiero contiano ad una complessa discussione su verità e poesia e ai soliti pregiudizi della corrente settecentesca piú classicistica e neoclassica (e con residui perciò anche nel Foscolo in cui giustificazioni particolari li spiegano e li limitano) circa il «comico vile», le «idee troppo libere e lascive» e viceversa circa le «utilissime allegorie morali». Ed un altro motivo notevole, in cui il Conti risente del pensiero graviniano, riguarda la ricchezza di vita del Furioso, il suo carattere di poesia di un’esperienza vitale vasta e non schematica («Il suo poema poi è un ritratto di tutta la vita umana in generale, poiché vi sono gl’infimi, i medj e supremi in ogni genere di persone»[23]) e la necessaria «appassionatezza» del tema centrale, la pazzia di Orlando[24], che mentre coincide con le indicazioni del secolo e con una ammirazione viva persino, come abbiamo visto, nel Fioretti, si motiva poi con spiegazioni di arida verisimiglianza e torna a complicarsi con i rimproveri classicistici[25] alla incoerenza del comico e del tragico, alla «eterogeneità molto difforme» dei vari episodi («almeno se si giudica della poesia secondo i principî d’Orazio e d’Aristotele, approvati da tutte le nazioni, come fondati sulla convenienza, la sola ed universal regola della poesia»[26]), per cui, in ognuno di quelli singolarmente superiore al Tasso, l’Ariosto cederebbe poi nella «forza architettonica della mente, che mai non si parte dalle regole della convenienza». Sí che mentre nei singoli episodi «verisimile» e «mirabile» sarebbero fusi e accordati nel «particolareggiamento», l’accordo non avrebbe luogo nel piano generale del poema dove

gl’incontri degli eroi e delle eroine, in tal tempo, in tal occasione, e per tali mezzi inaspettati in tanti inviluppi d’azioni e di circostanze, le agnizioni, o per lettere, o per anelli, o per versi, non convergono al corso naturale delle cose umane. Possono, è vero, comporre un intreccio tutto fantastico, e proprio dei mondi possibili; ma il frammischiarle con altre azioni verisimili, e non mai la ragione de’ loro rapporti, dispiace infinitamente all’anima, che, come s’è detto, cerca la ragione da per tutto [...][27].

Limitazioni essenziali per collocare al suo giusto posto storico il notevole giudizio del Conti, per capirne il valore, ma anche la distanza che lo separa dalle moderne formule di «realtà e sogno», di «terzo mondo», di sopramondo rinascimentale a cui pure parzialmente accenna nel legame inestricabile del «razionalismo» e della verisimile convenienza ed unità di tipo classicistico, sempre pronta a scattare anche nel mezzo delle piú briose conversazioni critiche settecentesche, animate dal senso dell’estro prima, del genio poi, finché il Romanticismo non ebbe portato una coscienza nuova della libertà e della organicità fantastica, non priva anch’essa di ritorni a vecchie posizioni e assai limitata quanto a diretto contatto con il testo poetico.

Il preromanticismo sviluppa naturalmente il motivo della genialità e della forza passionale ariostesca, puntando soprattutto sugli episodi piú appassionati come quello della pazzia d’Orlando.

Fra Illuminismo e preromanticismo[28] il Baretti nella Frusta letteraria, mentre riprende l’Ariosto da un punto di vista moralistico, lo considera «il piú grande di tutti i nostri poeti»[29] e dice dell’Orlando che «non dovrebbe esser letto che da quelli, i quali hanno fatto qualche cosa di grande a pro della patria, per premio e ricompensa loro»[30]. E in una «lettera ad una signora inglese» entra casualmente un giudizio sulla poesia ariostesca che ben rappresenta il nuovo interesse per l’incontro di genialità, passione, libera ispirazione creatrice. Per suffragare l’affermazione secondo cui il critico deve avere una congeniale comprensione della poesia, cita la freddezza del Muratori di fronte a due ottave dell’Orlando (pazzia d’Orlando).

Due ottave l’Ariosto ardí porre in bocca ad Orlando un momento prima che il cervello gli desse la volta, le quali veramente dipingono il paladino tal quale dovev’essere in quel tristo punto, cioè agitato d’amore, da furore, da gelosia, da pietà di se stesso, da altre contrarie passioni che lo dovevano condurre a mattezza un momento dopo. Il giudizio dell’Ariosto non credo avesse molta parte in quelle due meravigliose ottave. Fu la sua immaginazione, fu il trasportarsi con tutta l’anima nella stessa situazione d’Orlando, fu il suo poetico fuoco, fu un repentino entusiasmo che gli dettò quelle due ottave, anzi che gli dettò tutta quella descrizione d’Orlando che impazza gradatamente[31].

Si affaccia il mito romantico della ispirazione senza controllo, della immedesimazione del poeta col suo fantasma, con la situazione poetica[32]. Mentre una critica piú moderna potrà trovare sempre nell’Ariosto una piena trasfigurazione lirica, controllatissima, fuori di veristiche situazioni («tal quale dovev’essere»), la critica romantica nel rude preludio barettiano riprendeva alcune posizioni di ammirazione cinquecentesca trasportandole ad un gusto robusto di organicità, di sincerità espressiva, di originalità nativa che supera l’ammirazione settecentesca, piú raffinata e piú fragile. Impressione potente della forza e dell’esuberanza ariostesca che prelude ad una famosa immagine foscoliana:

Qual maraviglia, milady, se lo trovate piú scoglio [dice del Salvini] dello stesso Muratori contro l’onde e i cavalloni di poesia, che l’Ariosto come un Nettuno adirato, fa sovente rotolare addosso a’ suoi leggitori?

Alla fine del secolo il Goethe[33] nel suo Tasso (1790), parlando dell’Ariosto, «dessen Scherze nie verblühen», nella IV scena del I atto presenta un’appassionata e poetica descrizione del mondo ariostesco, sentito soprattutto come nativa grazia sorridente, gioiosa libertà fantastica, come spontaneità ricca di valore umano, coerentemente all’impressione settecentesca e con un piú forte senso romantico della creatività poetica:

Er (Der Kranz) ziert ihn schön,

als ihn der Lorbeer selbst nicht zieren würde.

Wie die Natur die innig reiche Brust

mit einem grünen bunten Kleide deckt,

so hüllt er alles, was den Menschen nur

ehrwürdig, liebenswürdig machen kann,

ins blühende Gewand der Fabel ein.

Zufriedenheit, Erfahrung und Verstand

und Geisteskraft, Geschmack und reiner Sinn

fürs wahre Gute, geistig scheinen sie

in seinen Liedern und persönlich doch

wie unter Blütenbäumen auszuruhn,

bedeckt vom Schnee der leicht getragnen Blülen

umkränzt von Rosen, wunderlich umgaukelt

vom losen Zauberspiel der Amoretten.

Der Quell des Ueberflusses rauscht daneben

und lässt uns bunte Wunderfische sehn.

Von seltenem Geflügel ist die Luft,

von fremden Herden Wies’ und Busch erfüllt;

die Weisheit lässt von einer goldnen Wolke

von Zeit zu Zeit erhabne Sprüche tönen,

indes auf wohlgestimmter Laute wild

der Wahnsinn hin und her zu wühlen scheint

und doch im schönsten Takt sich mässig hält[34].

La confidenza dell’Andrés, lo scherzo e il piacevole del Voltaire, la «sciolta maniera» del Bettinelli, il «mirabile» e il «verisimile» accordati nel «particolareggiamento» del Conti, ritornano in questa traduzione fantastica con un senso piú sicuro di esperienza e di saggezza superiore divenuta serenità poetica e misura in cui l’accertamento barettiano della passione e della immedesimazione è attutito e mediato.

E certamente la lettura attenta ed amorosa del Settecento nelle diverse giustificazioni di tale interesse e nel superamento delle vecchie polemiche aristoteliche e secentesche costituisce, insieme con l’offerta di approssimazioni critiche considerevoli, la base indispensabile per il piú impegnativo lavoro critico dell’Ottocento romantico fino al De Sanctis.


1 G.V. Gravina, Della ragion poetica, in Prose, a cura di P. Emiliani Giudici, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., 1857, p. 129.

2 Arte poetica, II. Ma permane nel Menzini, come in altri ammiratori del primo Settecento, il pregiudizio secentesco del contrasto fra lo stile umile e la grandezza epica ricercata convenzionalmente nel Furioso: «Questo in piú spazioso ampio viaggio / guida il suo carro ancorché l’umil stile / all’epica grandezza faccia oltraggio».

3 Il paragone fra Tasso e Ariosto fu ripreso piú tardi dal Bettinelli (Opere, t. XVI, Venezia, Cesare, 1800, nel Discorso sopra la poesia italiana) in pagine di squisita finitezza (spesso il contatto con l’Ariosto sollecita i lettori a considerazioni sottilmente stilistiche, quando non li induce a fantasticherie psicologiche e ad inutili variazioni sui «personaggi») nelle quali il poeta da lui amato («se non vi piace chiamarlo epico, a me basta chiamarlo divino», aveva già detto in risposta al primo giudizio voltairiano, cfr. Opere, t. IX, p. 159) viene esaltato (pur nella volontà di un equilibrato riconoscimento delle diverse qualità dei due poeti) proprio per la sua fluidità di figure e musica, per la sua «maniera sciolta», per la sua «evidenza» e per la «libera penna corrente e sicura» (p. 58), che nel linguaggio del gesuita illuminista e preromantico significavano, attraverso una riduzione al piglio moderno e brioso antipedantesco e antiscolastico, un accertamento (non di formula, ma di considerazione stilistica) della totale poeticità ariostesca, della sua qualità espressiva totalmente risolta. Sicché il Bettinelli in pagine degne di antologia (pp. 32-34) poteva sostenere l’intraducibilità dell’Orlando in prosa (il tentativo del francese Tressan), la sua vita tutta consegnata a quei precisi ritmi, a quegli incontri di immagini e di suoni. Naturalmente (per quanto il Bettinelli avverta il rischio e lo prevenga: «Io non vorrei sembrar gramatico oppure sofista, ma io parlo di sentimenti e d’anima, non di leggi minute e pedantesche) tale accettazione del Furioso importava una certa sordità alla creatività fantastica piú piena e una certa degustazione minuta e formalistica, che il Romanticismo finí per perdere, nel suo valore di attenzione stilistica, per uno sguardo piú profondo al centro del problema critico ariostesco, alla natura particolare dell’animo e del mondo poetico ariostesco. E del resto il paragone fra Ariosto e Tasso è fatto proprio per esemplificare in concreto le sue osservazioni sulla importanza dello stile, sulla sua caratteristica tutta individuale e sulla eleganza poetica che trova maggiore nell’Ariosto, meno amato (secondo lui) del Tasso dal grosso pubblico dei lettori perché «ci vuol piú cultura, e gusto piú fino di lingua a ben intendere e assaporar l’Ariosto» (p. 67). Ancora nel 1769 a Ferrara usciva un anonimo: Giudizi di diversi autori intorno alla precedenza dell’Orlando Furioso di Lodovico Ariosto o della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Ma ormai era un ultimo riflesso provinciale di una discussione ormai esaurita. Un riassunto della polemica nel Cinquecento e nel Settecento è nella Vita di T. Tasso (Roma, Pagliarini, 1785, vol. III, pp. 331-336) di P.A. Serassi, che scrisse anche un Ragionamento sopra la controversia del Tasso e dell’Ariosto (Parma, Bodoni, 1794).

4 Una viva testimonianza dell’amore settecentesco per il Furioso è rappresentata dal Ricciardetto del Forteguerri (ripresa di toni ariosteschi in traduzione piacevole) e dalla lettera proemiale del Forteguerri al Manfredi.

5 Proprio per la sua «forse soverchia natural propensione all’ordine, al sistema, all’esattezza», il Metastasio si confessava piú ammiratore del Tasso che dell’Ariosto (lettera a D. Diodati, 10 ottobre 1764), anche se dell’Ariosto egli non poté non sentire almeno il movimento scenico e l’eccezionale vivacità delle figure.

6 J. Andrés, Dell’origine, de’ progressi, e dello stato attuale d’ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1782, vol. II, p. 137.

7 Ivi, vol. II, p. 140.

8 Ibidem.

9 Ivi, vol. II, p. 142.

10 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Società Tipografica, 1792, vol. VII, p. 1251.

11 Ivi, vol. VII, pp. 1277-1278.

12 Ivi, vol. VII, p. 1277.

13 Per la storia dei giudizi voltairiani, oltre il saggio carducciano, utili L. Donati, L’Ariosto e il Tasso giudicati dal Voltaire, Halle, Max Niemeyer, 1889; G. Natali in Idee, costumi, uomini del ’700, Torino, S.T.E.N., 1916, pp. 180-182, e in generale E. Bouvy, Voltaire et l’Italie, Paris, Hachette, 1898; e L. Morandi, Voltaire contro Shakespeare, Baretti contro Voltaire, Città di Castello, Lapi, 1884.

14 Œuvres, Gotha, C.G. Ettinger, 1785, vol. X, pp. 378-379.

15 Nella Pucelle d’Orléans il Voltaire aveva del resto testimoniato il suo amore per l’Ariosto nell’effettiva mediazione di toni ariosteschi nella sua ironia conversevole e briosa (il tono confidenziale accertato dall’Andrés è sentito dal Voltaire soprattutto in direzione libertina, antiascetica) e nella dichiarazione affettuosa dell’inizio del canto XIII, quando, invocando scherzosamente san Giovanni, ricorda il san Giovanni del viaggio di Astolfo nella luna che perdonò le «vives apostrophes» indirizzategli «dans ses comiques strophes» dall’Ariosto «chantre aimable et rare / qui réjouit les seigneurs de Ferrare / par le tissu de ses contes plaisants». Era in sostanza un amore corrispondente al giudizio del ’26 (si veda J. Dubled, L’Orlando Furioso et la Pucelle, «Bulletin italien», 1911).

16 Il Bettinelli nella Lettera IV a Lesbia Cidonia sopra gli epigrammi (in Opere, ed. cit., vol. XXI, p. 33) si vanta indirettamente di avere influito sulla modificazione del giudizio di Voltaire: «Soggiunsi poi che, gustando l’Ariosto mi parea non l’avesse trattato con gusto nel suo saggio sul poema epico, avanti all’Enriade. Entrammo nell’argomento, ed ebbi agio di mostrar qual poeta quel fosse, quanto agli altri superiore, e che meritava d’esser da lui piú conosciuto, e non sol come un pazzo e un buffone irreligioso [...]. Mi promise di rileggerlo su la mia fede, e vidi poi nel tomo 35 dell’edizione di Losanna, che del poema epico parlando, e specialmente su gli esordii de’ canti de’ quali mi ricordo avergli molto detto, diede miglior idea dell’Ariosto». Il Casanova (Mémoires, Paris, Garnier, 1909, vol. IV, cap. IX, pp. 207 ss.) si vanta anche lui di aver rimproverato il Voltaire per il suo giudizio del Saggio sull’Ariosto (il poeta del suo cuore) e di averne avuto questa risposta: «Je vous remercie d’avoir cru que je ne l’avais pas lu. Je l’avais lu, mais j’étais jeune, je possédais superficiellement votre langue; prévenu par des savants italiens, qui adoraient le Tasse, j’eus le malheur de publier un jugement que je croyais le mien, tandis qu’il n’ était que l’écho de la prévention irréflechie de ceux qui m’avaient influencé. J’adore votre Arioste [...]. J’informerai toute l’Europe de la réparation que je dois au plus grand génie qu’elle ait produit». Poi Voltaire recita e traduce il brano da lui prediletto di Astolfo e san Giovanni, e Casanova declama il brano della pazzia di Orlando fra le lacrime abbondanti di tutto l’uditorio. Episodio bizzarro, ma significativo per la vera passione che il Settecento ebbe per l’Ariosto. Non riconobbe invece l’importanza del nuovo giudizio voltairiano e seguitò ad accusare il Voltaire per il suo primo errore il Baretti (Frusta letteraria, Bari, Laterza, 1932, vol. I, pp. 208-209, e Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, in Prefazioni e polemiche, Bari, Laterza, 1933, p. 223).

17 Œuvres cit., vol. XL, pp. 57-58.

18 Ivi, vol. XL, p. 49.

19 Ivi, vol. XL, p. 57.

20 Sulle relazioni Conti-Foscolo in generale si veda l’importante saggio di F. Ghisalberti, Il Foscolo e l’abate Conti, in Studi su Ugo Foscolo editi a cura della R. Università di Pavia, Torino, Chiantore, 1927, pp. 293-320.

21 A. Conti, Discorso sopra la italiana poesia, in Prose e poesie, Venezia, G.B. Pasquali, 1756, vol. II, p. 234.

22 Id., Trattato de’ fantasmi poetici, in Prose e poesie cit. vol. II, pp. 135-136.

23 Ivi, vol. II, p. 234.

24 Ivi, vol. II p. 143.

25 Inoltre razionalismo e classicismo fan sí che, nella paura del Barocco che distingue i classicisti del Settecento sia di fronte ai nuovi accenni preromantici se non erano accortamente mediati (come poteva avvenire nel caso dello stesso Conti, figura ricca di aspetti e di interessi), sia nella valutazione del passato, il Conti, in un paragone fra Catullo, Ovidio e Ariosto, trova nell’episodio di Olimpia abbandonata «un poco di raffinamento», «un non so che dell’affettazione dei secentisti» anche in quelli che chiama «fluidissimi versi» (ivi, vol. II, p. 199).

26 Ivi, vol. II, p. 148.

27 Ivi, vol. II, p. 150.

28 Per l’interpretazione della critica barettiana in direzione preromantica rinvio al capitolo sul Baretti nel mio Preromanticismo italiano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948.

29 G. Baretti, Frusta letteraria, ed. cit., vol. II, pp. 31 e 185.

30 Un elogio altissimo del Furioso è anche nella XVIII lettera della Scelta delle lettere famigliari, pure nel limite della proposta moralistica di purgare il poema «d’ogni laidezza, d’ogni oscenità». «Cosí rifatto, l’Italia s’avrebbe un pezzo di poesia da sgradarne tutto il resto del mondo antico e moderno» (Bari, Laterza, 1912, p. 79).

31 G. Baretti, Frusta letteraria, ed. cit., vol. I, pp. 154-155.

32 Johnson aveva posto l’Ariosto fra quei trascendenti poeti «whose genius soars beyond the reach of art» (come ripete il Baretti, Frusta letteraria, ed. cit., vol. I, p. 222) e nell’amore del Baretti per l’Ariosto si può ben sentire l’incoraggiamento del «dottore». Per le relazioni Johnson-Baretti si veda A. Devalle, La critica letteraria nel ’700, Milano, Hoepli, 1932 ed ora C.J.M. Lubbers-Van Der Brugge, Johnson and Baretti, Groningen, J.B. Wolters, 1931.

33 Nella seconda metà del Settecento in Germania l’Orlando Furioso fu oggetto di una speciale attenzione (v. E. Gianturco, The Beginnings of Ariosto’s Criticism in Germany, Meinhard and Lessing, «Romanic Review», 1934), che si riflette singolarmente nell’Oberon del Wieland (L. Marinig, Der Einfluss von Orlando Furioso auf Wieland, «Studi di filologia moderna», 1912). Nel 1782 lo Heinse traduceva il Furioso e il Gerstenberg in una lettera al Nicolai del 5 dicembre 1767 si augurava che la mitologia nordica potesse ispirare un nuovo Ariosto sentito come bandiera della «Gegenoffensive des Gefühls», della nuova libertà fantastica ed antiregolistica.

34 «La ghirlanda di fiori adorna la fronte dell’Ariosto meglio che non farebbe lo stesso alloro. Come la natura copre di una verde veste dipinta a mille colori il fecondo suo seno, cosí egli ravvolge nel fiorito velo della favola le cose tutte che sole possono fare rispettabile ed amabile l’uomo. La contentezza dell’animo, l’esperienza e la ragione e il vigore dello spirito, il gusto e il puro senso del vero bene, spiritualizzati e insieme personificati per entro i suoi canti, sembrano in quelli riposarsi come sotto alberi fioriti; e intanto una pioggia di bianchi fiori cade soave sopra essi, ed essi coronati di rose sono in mirabil modo aggirati dai giocondi scherzi degli Amori. Lí presso mormora la fonte dell’abbondanza, offrendo al quadro una meravigliosa famiglia di pesci variopinti; l’aria è tutta piena di uccelli peregrini; il prato e la selva di strane greggi. La malizia spia in agguato mezzo nascosta tra ’l verde; la saggezza fa di tratto in tratto risuonare sublimi sentenze da una nuvola d’oro: mentre la follia sembra scorrere in disordine con le dita le corde di un armonioso liuto, pur serbando la misura delle piú belle armonie» (vers. di G. Carducci).